Riflessioni sull’articolo di Francesca Bonazzoli Coriere della Sera del
27-02 2010
Bell, articolo! qualche appunto però devo porlo per
soddisfare la mia verve polemica:
nella sua profonda disamina l’articolo si svincola
intelligentemente dal “mezzo”. Ad esempio e non casualmente quando la Bonazzoli
parla della Body Art mette in luce ed esalta la preparazione spirituale dell’
artista e non l’opera finale, come nelle altre citazioni dell’articolo. Si nota
dunque il dominio ormai pressoché definitivo in tutti noi dell’ “idea” che
prevale sulla “ realizzazione” anzi la annulla come se ne fosse la parte più
volgare quasi “peccaminosa” dell’opera artistica. Non si capisce perchè tutti
si accaniscono a citare “Della spiritualità nell’arte “ tralasciando il seguito
“Punto linea e superficie” che Kandinsky
pubblicava nel 1926 con l’editore Albert Langen di Monaco come nono volume della collana Bauhaus-Bucher. O meglio,si
capisce bene grazie ad una strana interpretazione pseudo socialista che ha reso
il lavoro manuale come elemento denigrante del genere umano; cosi passo dopo
passo siamo lentamente tornati al medio evo dove il musicista interprete e compositore era meno che uno
schiavo perché utilizzava le mani e l’artista supremo era il teorico, cioè colui
che pensava senza “sporcarsi” le mani. Questo ha creato una dicotomia
drammatica nel novecento rendendo il periodo storico esasperatamente
schizofrenico nel dualismo tra il pensiero “l’idea” e la sua realizzazione
“mezzo”. Oggi nell’opera d’arte non si vede, non si incarna più l’dea, le idee non
danno vita all’opera ma ben si la giustificano, o addirittura vivono di luce
propria. Capiamo tutti che dirsi pazzi non significa esserlo, questa
comprensione è sparita davanti alle palesi falsità dell’arte contemporanea. Hanno
eliminato volutamente, la mia accusa è cercata e consapevole, la semantica
nell’arte visiva. Significato-significante si annullano in nome dell’ “idea”
come unico elemento generatore.
L’idea intesa nel suo femminile: come dea generatrice,
fattrice elemento da spremere in un allevamento intensivo fino a dargli vita
solo tramite elementi “transgenici” in quanto finiti quelli “naturali”. Insomma
l’idea come prostituta al servizio dell’arte , come fattrice industriale. L
‘idea a giustificazione di tutto quello che ci fanno vedere. L’idea come dea
intoccabile impalpabile, santa immacolata, idea che non si assume
responsabilità nella sua materializzazione in arte.
Il liberarsi della pittura dal “ suo significato pratico”
(Kandinsky punto linea e superficie ) a portato ad un definitivo affrancamento
dell’“idea” dal “mezzo” (inutile sottolineare che Kandinsky non le scindesse ma
le volesse riportare su un piano di equilibrio, ma questo presuppone il leggere
interamente il suo libro cosa mi pare
oggi nessuno faccia) permettendo ai critici di assumere un ruolo mai avuto e
mai accettato fino ad oggi. Appropriandosi di una parte delle idee dell’arte
dei primi del novecento si sono presi il potere di decidere del futuro prossimo
dell’arte, quale meccanismo hanno creato? Semplice, sapendo benissimo che
l’arte astratta ha incontrato fin dall’inizio una sana diffidenza (come sempre
successo nella storia di qualunque nuovo movimento artistico) hanno deciso di
cavalcare quest’onda richiedendo sempre di “giustificare” e dare “valore”
all’opera d’arte con la dichiarazione di appartenenza dell’artista o dell’opera
stessa, ad una “idea”.
L’ “idea” il “concetto” cosi espresso permetterebbe secondo i
curatori ed i critici la visione corretta dell’opera che essendo astratta avrebbe
difficoltà di comprensione nel pubblico e risulterebbe poco fruibile.
L’astratto, non come “possibilità di entrare nell’opera e divenirne parte
attiva…” (kandinsky) ma come spiegazione dell’ ”idea” in sostituzione alla
funzione storica del figurativo. Abbiamo permesso che la “visione corretta dell’opera d’arte” e
l’individuazione del suo contenuto primario non passasse per la nostra
emotività di fruitori ma venisse costantemente mediata da un modello
esplicativo dell’idea generatrice. Il
concetto, “l’idea” diventa cosi patrimonio di tutti e non più libero arbitrio
dell’artista, essendo essa svincolata dalla materia chiunque le può
oggettivamente gestire. L’artista perde sempre più di valore per le sue
capacità e ne acquista per le sue idee, all’artista viene sempre più indicato, suggerito
e “caldamente raccomandato” il modello di riferimento, “l’idea” dai vari curatori e critici che
ottengono cosi una importanza abnorme come unici possibili intermediari
dell’operato dell’artista e della sua comunicazione. Abbiamo in realtà
dimostrato che il novecento non ha realmente e profondamente accettato l’astratto,
quest’ ultimo per sopravvivere deve volente o nolente appoggiarsi ad elementi
estranei alla sua stessa natura. In breve si elimina la libertà espressiva del
singolo artista conquistata a fatica dall’ astrattismo per ributtalo nel
dominio del figurativo anche se questo a assunto una veste apparentemente
diversa. Come nel gioco delle tre carte abbiamo sostituito il concettuale, “l’idea”
al figurativo, donandogli però la medesima funzione storica!
ecco cosa succede ad insegnare composizione....... Tommaso Scandroglio ho avuto la fortuna di averlo come allievo e quello che oggi scrive lo trovo interessante, e stimolante per un dibattito infinito :
Musica: ciò che è bello è naturale
Perchè un tempo i contemporanei di Mozart e Beethoven
andavano ad ascoltare le loro musiche e ne traevano diletto ed oggi invece
quasi nessuno assiste più ad un concerto di compositori viventi – o acquista
loro opere –e se lo fa poi il più delle
volte se ne pente? I motivi possono essere più di uno: non c’è più educazione
musicale, c’è disaffezione verso la cultura alta, di spessore, il costo dei
biglietti o dei CD è elevato, etc. Tutte ragioni molto buone, ma al fondo,
forse, c’è una spiegazione più plausibile e più semplice: la musica di oggi è
brutta.
La musica cosiddetta “classica” all’inizio del
Novecento ha cambiato nome ed ora si chiama, con un termine molto generico,
“musica colta”. Se qualche lettore di buona volontà decidesse di avventurarsi
in una sala da concerto per assistere all’esecuzione di un pezzo di musica
colta ne uscirebbe con uno o entrambi dei seguenti stati d’animo. O
estremamente divertito per l’assurdità quasi clownesca dei suoni che ha ascoltato,
oppure molto abbattuto e schifato per la bruttezza della partitura. La musica
contemporanea, in buona parte ma per fortuna non completamente, è musica quasi
inascoltabile. Chiediamoci allora questo: cosa è successo alla musica verso
l’inizio del Novecento?
La musica classica e popolare, fino agli inizi del
secolo scorso, era costruita su elementi che potremmo definire naturali. Spieghiamo
il concetto. Il suono è un fenomeno naturale. Se noi, come se fossimo in un
laboratorio, prendessimo un suono qualsiasi, ad esempio un Do, e lo
sezionassimo potremmo scoprire una cosa molto interessante. Quel suono Do è
costituito da altri suoni, chiamati armonici. Cioè al suo “interno” ci sono
altre note ben definite: un altro Do, un Sol, un Mi, e così via quasi all’infinito.
E’ un po’ come quando esaminiamo lo spettro della luce: sappiamo che la luce
bianca – quella del sole per intenderci – è formata dai colori dell’arcobaleno.
Allo stesso modo per ogni nota: se la scomponiamo troviamo che essa è costruita
con altre note, con altri colori della scala musicale. Questo è un fatto
scientifico, nessuno si è messo a tavolino a stabilirlo: è un dato presente
nella natura dei suoni. Però, ed è un altro elemento interessante, i suoni
armonici di cui è fatta ogni nota non hanno tutti al nostro orecchio la stessa
fisionomia. Detto in altri termini: questi suoni “secondari” sono più o meno
dissonanti rispetto alla nota principale, cioè assomigliano più o meno alla
nota di cui fanno parte. Alcuni di essi li sentiremo molto simili alla nota
madre, più consonanti, altri invece li percepiremo come molto differenti, più
dissonanti. Questo rapporto di consonanza-dissonanza che, lo ricordiamo, è un
rapporto naturale, è stato da sempre la base della musica occidentale sia colta
che popolare. La regola interna che pone i suoni in una relazione più o meno
gradevole all’orecchio ha fondato la cosiddetta musica modale e poi quella
tonale, dando vita alle regole del contrappunto e dell’armonia. Anche oggi se
accendiamo la radio e sentiamo un brano di musica pop, anche quel brano è stato
realizzato sulla base di queste regole. Tali legami di “parentela” tra i suoni
hanno generato la musica monodica (pensiamo al gregoriano), cioè alla musica
formata da una sola melodia, poi la musica polifonica (pensiamo ad esempio a
Monteverdi) in cui più voci si intersecano, poi alla musica Barocca, Classica
in senso stretto, Romantica, etc. Dall’antichissimo brano “Victimae paschali
laudes” alla Decima Sinfonia di Gustav Mahler del 1910 questa legge naturale dei
suoni è sempre stata rispettata. In questo senso comporre seguendo simili norme
acustiche-musicali significava scrivere facendosi capire da tutti. Dato che,
come spiegato, queste regole sono presenti nella natura dei suoni, l’uomo naturalmente le ha colte e spontaneamente
le ha comprese senza difficoltà almeno nel loro impianto di base. Espresso in
altre parole: la musica occidentale, sia quella di Bach che quella tradizionale
formatasi tra la gente semplice, è un linguaggio che tutti possono capire nei suoi
elementi fondamentali perché usa parole comprensibili da tutti. Questa musica è
come se, una volta udita, mettesse in vibrazione delle corde naturali presenti
nel cuore di ogni uomo. C’è un’assonanza tra come è fatto l’uomo, la sua
natura, e una musica che conserva in sé questi elementi naturali. E’ proprio
per tale motivo che possiamo affermare che il bello ha in sé delle regole
naturali, dei rapporti interni già dati e non è frutto dell’invenzione
dell’uomo. In sintesi: ciò che è naturale è anche bello. Anzi: proprio perché è
naturale è bello. Sta all’uomo invece scoprire queste regole naturali ed
esprimerle convenientemente con i suoni, la pittura, la scrittura, la danza,
etc. E’ anche ovvio però che un brano musicale ci potrà piacere o meno non solo
se rispetta queste regole naturali acustiche ma anche se si avvicinerà alla
nostra sensibilità, al nostro modo di pensare, ai nostri gusti, al nostro
vissuto, alla nostra cultura e formazione, etc.
Fino al Novecento simile impianto
“naturale” è stato sostanzialmente rispettato. Poi a tale lingua parlata e
comprensibile da tutti si è deciso di sostituirne un’altra inventata a
tavolino. E’ ciò che ha fatto per esempio Arnold Schoenberg nei primi anni del
XX secolo. Egli inventò un sistema di composizione noto come dodecafonia, che
letteralmente significa “delle dodici note”. Ogni scala musicale – perlomeno
nel nostro sistema chiamato temperato – è formata da dodici note. Sulla
tastiera di un pianoforte, per esempio, per andare da un Do al Do più acuto
successivo devo suonare dodici note: do, do diesis, re, re diesis, etc. fino ad
arrivare al nuovo Do più acuto che rappresenta la tredicesima nota ).
Se prendiamo queste dodici note e le mischiamo otteniamo infinite sequenze di suoni .E’ un po’ come anagrammare una parola: Roma, diventa amor, mora,
orma. Ma può diventare, ed è qui il problema, una parola non di senso compiuto,
ma una parola incomprensibile perché non presente nel nostro vocabolario come
maro, rmao, oamr, etc. L’importante è, per Schoenberg, rispettare sempre e con
rigore la sequenza scelta inizialmente. Il risultato di queste composizioni
molto complesse e difficili non solo per chi ascolta ma anche per l’esecutore è
il caos. Un caos che paradossalmente è frutto di calcoli matematici estremamente
complicati. Il problema di Schoenberg – che va detto poi abbandonò questa
strada – e di uno stuolo di altri compositori, suoi contemporanei e venuti dopo
di lui, è stato che hanno creato artificialmente una nuova lingua, con un nuovo
alfabeto e una nuova grammatica, non parlata da nessuno e quindi da nessuno
comprensibile. Un nuovo linguaggio che non aveva in sé delle regole naturali
per essere compresa, regole che tutti posseggono, ma che era frutto
dell’assoluto arbitrio dei compositori, i quali per essere capiti, dovevano poi
spiegare ai loro uditori pezzo per pezzo il come e il cosa avevano scritto. In
tal modo si è venuti meno ad una delle finalità dell’opera d’arte che è quella
di essere compresa da tutti, cioèa livello
universale, senza bisogno di interpretazioni, almeno nei suoi contenuti di
base.
La musica invece degli ultimissimi anni
dell’Ottocento e dei primi del Novecento di autori quali Bruckner, Mahler,
Richard Strauss, Scriabin, Rachmaninov, era riuscita a preservare quelle regole
naturali musicali di cui si parlava prima ma evolvendole, così come si era
sempre fatto del resto. E’ questo il concetto di tradizione in musica: un nuovo
anello di una lunga catena, ma attaccato a quello precedente. Solo così
l’innovazione è comprensibile da tutti. Proprio come avviene nelle lingue
parlate che subiscono mutamenti ma in modo naturale, perché spontaneo e
graduale: al passo con le sensibilità dei tempi.
La soluzione per creare una musica esteticamente
di valore è allora quella di non rompere con il dato reale del bello
inventandosi nuove sintassi espressive, ma è quella di tornare a scoprire
queste regole naturali vivendole ed interpretandole secondo la sensibilità
odierna. Da qui nascerà l’originalità e la qualità imperitura dei cosiddetti
capolavori. Così come fecero i buon Bach, Mozart e Beethoven.